«Cara,
hai visto i miei calzini bianchi?».
«No.
E non so dove siano».
Figurarsi.
Li odiava, quei calzini, quindi doveva per forza sapere dove si
trovassero. Facile, anzi, che li avesse nascosti lei.
Dino
iniziò a frugare nel cassetto con rabbia, scompigliando tutto
quanto.
Perché
li detestasse era un mistero. A quanto pareva, la moda considerava
eleganti mise da
straccioni, ma si ostinava ad attribuire valore indiscutibile ad un
unico precetto: “tu non indosserai calzini bianchi”. Era più di
una prescrizione: era un dogma, un tabù.
Intensificò
la ricerca, scaraventando, senza tanti complimenti, la biancheria sul
pavimento.
Eccoli,
finalmente. Erano nell'angolo in fondo sinistra del cassetto, sotto
la maglia di lana, quella che non metteva mai. Sicuramente Elena li
aveva infilati lì sperando che non li trovasse.
Li
alzò trionfante, poi si guardò in giro riflettendo se fosse il caso
di rimettere tutto a posto. Macché. Se Elena aveva avuto il tempo di
nascondere i suoi calzini bianchi non le sarebbe mancato quello di
rimettere in ordine.
«Purtroppo
è così, Borletti. La fusione ci impone di ridurre il personale,
perciò...».
Quadri
allungò a lui e a Crociani un voluminoso pacco di documenti.
«Non
dovrei dirvelo» proseguì il dirigente «ma questa analisi di
bilancio non è una semplice analisi di bilancio....» abbassò la
voce «Ci siamo capiti?» .
«Capiti
un cavolo» ringhiò Crociani non appena furono a distanza di
sicurezza.
Dino
non rispose. Gli era bastato uno sguardo al plico per capire che,
quell'anno, lui e Crociani non avrebbero lavorato assieme. Ciascuno
aveva una copia integrale dei documenti e ciascuno avrebbe dovuto
redigere una propria relazione.
«Pare
che Hitler facesse lo stesso» proseguì Crociani «assegnava a due
collaboratori, in competizione tra loro, lo stesso compito, e poi
sceglieva. Questa...» sollevò lo scartafaccio «è una forma di
darwinismo aziendale».
«E
quel che è peggio è che siamo amici» aggiunse Dino.
Crociani
non rispose. Erano usciti dal complesso dove si trovavano gli uffici
dei dirigenti. Per raggiungere il loro posto di lavoro avrebbero
dovuto attraversare il cortile, flagellato da una pioggia fine e
gelata. «Buona fortuna, amico» disse Crociani avviandosi.
«Ma
ti pare che sia la tua serva?» berciò Elena.
Dino
mugugnò qualcosa. Sua moglie non aveva torto: quella mattina aveva
lasciato la stanza come un porcile. «Cos'è che ti è preso, la
nostalgia dei bei tempi andati quando la donna stava in casa e filava
la lana? Dì un po' ti andrebbe di fare cambio? Be' comincia
adesso!». Elena si precipitò in camera da letto e tornò con un
fagotto di indumenti stropicciati.
Il
brontolio di Dino si trasformò in qualcosa di più articolato. Sua
moglie non aveva tutti i torti... ma neanche tutte le ragioni. Era
stata lei a iniziare nascondendogli i calzini.
«Buon
divertimento!» disse sbattendogli addosso il fagotto. I panni
caddero per terra, alla rinfusa.
Dino
si chinò a raccoglierli ed Elena lo superò dirigendosi verso la
porta d'ingresso. La sbatté così violentemente che il frastuono
coprì l'insulto che gli aveva lanciato.
Eh
no, eh? Quella era decisamente una reazione esagerata. Un uomo avrà
pure il diritto di mettersi i calzini che vuole no?.
«Non
possiamo andare avanti così».
Sua
moglie giaceva a pochi centimetri da lui, ma la distanza che li
separava sembrava molto maggiore.
«Giada
ha qualche problema. Rendimento incostante a scuola, brutti
sogni...». Si girò verso Dino. Lui giaceva rigido, fissando nel
buio il soffitto che non riusciva a vedere.
«Non
dovremmo litigare» proseguì sua moglie. «Non le fa bene».
Dino
fu tentato di voltarsi, ma non lo fece. Sentiva un'onda gelida che lo
sommergeva, salendo dai piedi.
«Soprattutto
per delle sciocchezze».
La
marea diaccia lo avvolse del tutto. Sciocchezze? La moda era una
sciocchezza, ma quella era sempre stata una sua idea,
non di Elena.
«Puoi
accompagnarla tu, a scuola, domani?» chiese sua moglie. L'uomo emise
un monosillabo che avrebbe potuto essere un “sì”. C'era gente
che aveva creato uno stile andando contro le
mode: orologi sul polsino della camicia, cravatte portate sopra il
gilet... Certo, non lui non osava paragonarsi a loro, però, però...
era una questione di identità, ecco. Una questione di affermazione.
La
donna allungò un piede verso il suo e subito lo ritirò. «Sei
gelato» disse voltandosi dall'altra parte.
Era
vero. I piedi gli sembravano quelli di qualcun altro, qualcuno che
era stato sepolto nel ghiaccio dalla notte dei tempi e il cui gelo
gli risaliva fino al cuore.
Se
solo li avesse infilati in un paio di calzini. Nei suoi calzini
candidi, caldi... gli sembrava persino di avvertirne il tepore.
Concentrandosi
su quella sensazione, si addormentò.
«Insomma,
Giada, muoviti, siamo in ritardo!».
«Non
è colpa mia se non trovo le calze, papà».
«Non
è colpa tua eh? Devi imparare a tenere in ordine le tue cose. Non
siamo mica i tuoi ser...». Dino si interruppe, conscio di quello che
stava per dire. Agguantò un paio di calzerotti sporchi e li gettò a
sua figlia «Avanti, mettiti questi!».
«Ma
io le avevo messe a posto!» piagnucolò la bambina accosciata in un
angolo della stanza. Poco dopo si alzò, reggendo un tubolare bianco.
«Le mie calze con Hello Kitty!» frignò «Ce n'è solo una!» .
«Per
la miseria, Giada, ti sbrighi?»
«Ce
n'è solo una!» ribadì la figlia «L'altra l'ha presa il mostro dei
calzini bianchi!» .
In
attesa di conferire con la maestra, Dino scorreva i titoli dei libri
che componevano la biblioteca scolastica. Volumi portati dai ragazzi,
che dovevano scambiarseli aggiungendo una breve recensione.
“Piccoli
brividi” sillabò con una smorfia di disgusto. Capace che l'idea
del mostro dei calzini bianchi venisse da lì.
«Sai
come ho fatto a decidermi a lasciarlo?».
Le
due donne, dall'altra parte della libreria, non parlavano a voce
alta. Semplicemente, fino a quel momento, avevano bisbigliato, ma
ora, infervorate nella discussione e convinte di essere sole...
Comunque
non era il caso di origliare e Dino prese ad allontanarsi.
«Il
dentifricio» proseguì la donna «Quella sua mania di non chiudere
mai il tubetto. Lui sa quanto lo odi, ma se ne frega. Ieri è stata
la classica goccia che fa traboccare il vaso».
«Mi
sembri raffreddato, Borletti».
Per
tutta risposta, Dino si soffiò il naso. Non sembrava raffreddato, lo
era. Colpa dell'altro giorno, quando lui e Crociani avevano
attraversato il cortile sotto la pioggia. Aveva trascorso tutto il
pomeriggio con i piedi bagnati e questo era il risultato.
Starnutì.
«Non
volermene, ma ti starò lontano per un po'. Non voglio prendermelo
anche io» fece Crociani indietreggiando. «Buona fortuna, collega».
Dino
starnutì ancora e si chinò sulle carte. Non riusciva a
concentrarsi, quello era l'effetto peggiore del raffreddore, con la
relazione da depositare entro tre giorni. Non ricordava neppure che
cosa gli avesse detto la maestra su Giada, quella mattina. Qualcosa a
proposito del fatto che sua figlia dormiva in aula, degli incubi
infantili, del fatto che erano perfettamente normali, ma che nel caso
di sua figlia forse non era così. Che cosa gli avesse suggerito,
però, non lo rammentava.
Gli
veniva in mente, piuttosto, quanto le due donne si erano dette circa
il dentifricio e le gocce che facevano traboccare i vasi.
Elena.
Aveva ragione a dire che non dovevano litigare, che a Gaia non faceva
bene, ma lei non doveva rompergli l'anima con quei calzini. “Lascia
che li lavi, almeno” aveva insistito quella mattina. Già. E se li
avesse buttati? Bastava una scusa qualunque. Gli pareva di sentirla.
“Li metti così tanto che sono lisi e si sono bucati”. O magari
non avrebbe detto niente del tutto.
Starnutì
ancora.
Certo,
avrebbe fatto il possibile per eliminarli. Non poteva non sapere
quanto lui tenesse a quei calzini. Quanto fosse una questione di
orgoglio, di identità. Per questo ce l'aveva tanto con loro: perché
ce l'aveva con lui. E per via delle gocce che fanno traboccare i
vasi.
Altro
starnuto. Crociani non sembra averlo preso il raffreddore, e sì che
anche lui l'aveva fatto, il percorso sotto la pioggia.
Certo,
se Dino avesse avuto i suoi calzini bianchi sarebbe stato tutto
diverso.
«Hai
fatto il bucato?».
«Sì
ma non l'ho steso. Con questo tempo non asciugherebbe».
Ma
sicuro, prendimi per fesso. Cosa credi, che me ne dimentichi? E
domani che cosa mi dirai, che li ha portati via il vento? O che è
stato il mostro dei calzini?.
«Be'?
Allora? Che cosa ti ha detto la maestra di Giada? Che cosa fai lì
impalato?».
Dino
si riscosse «Eh... uh... niente. Tutto a posto».
«Dino...
stai bene?» nella luce fioca della cucina gli occhi di sua moglie
sembravano così grandi da racchiudere infinite potenzialità.
Che
brava attrice.
«Eh...uh...
tutto bene. Solo qualche pensiero sul lavoro».
«Papaaaaaà!».
L'urlo
di sua figlia durò alcuni secondi dopo che Dino ebbe acceso la luce.
La
stanza della bambina era a soqquadro. La biancheria, in particolare,
era sparsa per ogni dove. Un cassetto dell'armadio sporgeva, vuoto,
come una mandibola disarticolata, mentre l'altro era in bilico come
per un esercizio di equilibrismo.
Udì
Elena – che aveva il sonno pesante e il risveglio più lento del
suo – uscire dalla camera da letto e dirigersi verso quella di
Giada.
Entrando,
sua moglie si strinse il volto tra le mani in una maschera di puro,
assoluto terrore.
«Co...
co... cosa è successo?» balbettò.
«Credo
che Gaia abbia avuto un attacco di sonnambulismo».
Sicuro.
Era l'unica spiegazione logica. La bambina era andata in sonnambula,
si era svegliata, aveva urlato e lui era andato a vedere che cosa
fosse successo.
Solo,
non ricordava di averlo fatto.
«La
porto io dal medico e...» Elena gli puntò contro l'indice «stasera
ne parliamo». Si rivolse alla figlia che teneva in braccio come
quando era molto piccola. «Ti va di andare dai nonni stasera?».
La
bambina non rispose.
Dino
stava in piedi al centro del corridoio. Tra il raffreddore e gli
strilli di Giada si era svegliato tardi. A pensarci bene, non si era
svegliato del tutto e la consegna della relazione era prevista per
quella mattina.
Elena
uscì scuotendo la testa, ma senza sbattere la porta. Sua figlia non
lo salutò.
Era
così che facevano. Ti portavano via i figli, ma iniziavano coi
calzini.
Ciabattò
verso la stanza della bambina, si fermò qualche istante, poi si
chinò, frugando sotto il letto.
Se
c'era un posto dove il mostro dei calzini avrebbe potuto nascondersi
era proprio quello. Lì, Giada non avrebbe guardato mai.
Annaspò
nello spazio tra la rete e il pavimento, poi li trovò e li tirò
fuori.
Erano
tubolari elastici, e con qualche sforzo, si sarebbero adattati ai
suoi piedi.
Se
li avesse rivoltati, poi, non si sarebbe visto neppure il disegno di
Hello Kitty.
Certo,
non erano i suoi calzini
bianchi, ma non aveva il tempo di mettersi a cercare nella
biancheria.
Se
li strinse al petto.
«Sono
qui» .
Dal
bagno, Dino sentì sua moglie chiudere la porta.
«Sei
in anticipo» disse Elena.
«Dobbiamo
parlare» le rispose, poi ne udì i passi percorrere la casa e
dirigersi verso di lui.
Dobbiamo
parlare, certo, ma non di quello che pensi tu. Non di Quadri che mi
dice “lei comprende che la scelta è sin troppo facile, Sig.
Borletti”, né del suo sguardo o di quello di Crociani. Ma tanto
non serve. Perché avevi previsto tutto vero? Per questo li hai fatti
sparire. Sapevi che, se li avessi avuti addosso, avrei conservato il
posto.
«Non
ci sono» disse indicando la lavatrice.
«Ma
ti pare il momento...».
«Non
ci sono!» ringhiò Dino Borletti.
«Dino,
ma cosa.... non stai be...» non finì la frase. Dino non stava bene
e non c'era bisogno di dirlo. In ogni caso, non ne avrebbe avuto il
tempo.
«NON
CI SONO!» ruggì l'uomo afferrando sua moglie per il collo e
spingendole la testa dentro la lavatrice.
Era
un modello con carica dall'alto, chiusura ermetica e sportello in
metallo. «Non ci sono, non ci sono noncisonononcisono!!» urlò
sbattendo il coperchio della lavatrice sul collo di Elena. Le mani
della donna artigliarono l'aria, invano.
«NONCISONONONCISONO!!»
Il metallo si deformò. Schizzi di sangue rigarono la superficie
smaltata. Le unghie della donna trovarono la guancia del marito e
l'artigliarono lasciando solchi profondi. Lui la ignorò. I movimenti
di lei si fecero più frenetici, ma più sconnessi.
«NONCISONONONCISONO!!»
latrò l'uomo.
Per
un po' si udirono solo le urla soffocate di sua moglie e il
ritmico bump
bump bump dello
sportello contro la nuca. Poi solo i tonfi. Poi niente del tutto.
Non
era un gran pulito.
Dino
sollevò i calzini, scrutandoli nella luce piena del salotto.
Bagnandosi,
le scarpe avevano lasciato giù un bel po' di colore, ed era
necessario rilavarli. Forse per questo Elena li aveva rimessi nella
cesta dei panni sporchi.
Ma
no. Voleva buttarli. Anzi. Voleva nasconderli per darli a Crociani. O
magari a Quadri.
Li
osservò da ogni lato. Se ne sarebbe occupato lui. E comunque, anche
se avessero preso un po' di colore, non sarebbe stato un gran danno.
Era il suo colore, dopotutto. E quelli erano i suoi calzini.
Passò
davanti al bagno gettandovi un'occhiata distratta. Elena sembrava
intenta ad un'accurata ispezione della lavatrice. Tanto accurata da
richiedere l'eternità intera.
Entrò
nella stanza da letto.
Il
mostro dei calzini bianchi. Che sciocchezza. Nessun mostro avrebbe
potuto annidarsi sotto il letto di Giada: era troppo basso. Ma il
loro....
Lì
sotto avrebbe potuto nascondersi qualunque cosa senza che nessuno la
trovasse mai più.
Strisciò
nella vacuità tenebrosa e fredda tra la rete e il pavimento,
stringendo al petto i calzini bianchi perché la polvere non li
sporcasse.
E
lì rimase.
«Ebbene,
cosa te ne pare?»
«Mah...
Margherita, che cosa devo dirti... sistemarla, l'hai sistemata bene,
pagarla, l'hai pagata poco, solo che...»
«Aaaah,
tranquilla, risparmiati le allusioni. So tutta la storia. So anche
che lui non l'hanno mai trovato».
L'altra
donna sorseggiò il the come se, di colpo, fosse diventato molto
amaro.
«E
Giorgio? Lui....».
«No,
no, per carità... tutto a suo tempo: sai com'è: fatica ad adeguarsi
ai cambiamenti. Ancora sbaglia a entrare nelle stanze, non trova mai
niente...» .
«Margherita»
disse l'uomo dall'altra stanza » hai visto le mie ciabatte?».
©Rubrus
ringraziamo l'Autore, Rubrus, per il contributo di questo racconto inviato a Magla per la pubblicazione in questo blog. [Magla staff]
Nessun commento:
Posta un commento