Cave
mortem
Lodovico
Ferrari
L’automobile
si arrampica velocemente su per la collina. L’aria tiepida di fine
aprile turbina attraverso il finestrino semiaperto. Io la sento
appena. Non spingo troppo sull’acceleratore, per ora. Verrà il
momento in cui mi ci appoggerò con tutto il mio peso e il motore
ruggirà di rabbia. La strada diventa sempre più stretta,
l’orizzonte sempre più lontano, la fine sempre più vicina. Lo
avevo promesso quando gli anni erano ancora pochi e la prospettiva
era lontana. Avevo giurato a me stesso che mi sarei risparmiato una
vecchiaia di pannoloni e di sedie a rotelle, di frutta cotta e
dentiere. La vita o la si vive appieno, come avevo fatto per i primi
settant’anni o deve cedere il posto all’oblio. Non sarei stato di
peso per i miei figli e i miei nipoti, non avrei perso la dignità
con pappette e dolori. Meglio abbracciare la nera signora camminando
sulle mie gambe, anzi, correndo sulla mia auto. Tutto previsto, tutto
organizzato. Quattro chilometri ancora e la strada avrebbe
abbandonato il guard rail metallico per dare spazio a curve creative
a strapiombo sulla roccia. E lì avrei trovato la mia nuova vita, se
altra vita ci sarebbe stata, altrimenti il nero, l’oblio, il nulla
come prima della nascita.
L’aria
comincia a raffreddarsi, merito dell’altitudine. L’auto ubbidisce
ai miei comandi e procede indifferente al mio e al suo destino. La
sensazione di freddo si accentua. Osservo il finestrino. È chiuso,
lo avevo alzato un chilometro prima. E poi me ne accorgo.
L’impressione di non essere solo in auto mi colpisce come una
secchiata d’acqua gelata.
Un orrorifero incipit! Grande Lodovico! Descrizioni belle e d'effetto. La storia si legge d'un fiato e lascia raggelati, curiosi circa il seguito. Complimenti!
RispondiEliminaMarina Paolucci